I DUE MACCAGNO

         I due Maccagno sorgono allo sbocco della Valveddasca in uno dei punti più belli del Verbano.

A mezzogiorno si stende un vasto specchio di acque chiare e rilucenti e lo sguardo si spinge sino alle lontane pendici del Vergante, a Nord il lago comincia a rinserrarsi fra alte cime che creano zone di cupe ombre.

Armoniosa la linea dei monti che fan corona al luogo lieto di sole e di verde, bello il piano che s’apre a ventaglio e s’avanza nel lago alle soglie della valle dal solco assai singolare. Le montagne che ne formano i versanti hanno vette ampie e tondeggianti che scendono con dolci fianchi verso poggi e terrazzi posti a mezza altezza, ma al di sotto di questi i pendii precipitano su un fondo strettissimo preda del Giona, fiume impetuoso, che vi scorre solitario.

Tale strana conformazione nacque in seguito ai grandiosi fenomeni geologici dell’epoca glaciale.

Tutti ormai sanno che i ghiacciai che ora ricoprono le più alte cime delle Alpi, per un eccezionale, misterioso abbassamento della temperatura, che provocò abbondantissime precipitazioni nevose, s’allungarono 500.000 - 20.000 anni or sono lungo le valli sino a raggiungere le pianure.

Portarono con essi enormi quantitativi di detriti che poi depositarono qua e là al loro fondersi.

La lunghezza e l’ampiezza di quegli antichi fiumi di ghiaccio hanno dell’incredibile, ma possiamo trovare dei termini di confronto nei ghiacciai che ancora ricoprono alcune vallate dell’Asia Centrale, l’Islanda e le Zone Polari, il cui spessore si calcola a centinaia di metri e la lunghezza a decine e decine di chilometri.

La Valveddasca, prima di quel grandioso fenomeno glaciale, era una valle modesta il cui fondo si trovava centinaia di metri più in alto dell’attuale; essa si univa, a ponente del monte Cadrigna, ad una valle oggi scomparsa diretta da nord a sud di cui sono rimasti alcuni frammenti: la sella del Lago Delio e il solco Campagnette-Dumenza-Torbiera.

Un fiume placido la percorreva rispecchiando un paesaggio sereno.

Naturalmente il Lago Maggiore non esisteva ancora e fitti boschi ricoprivano la zona dove le fiere s’aggiravano sovrane.

Sopraggiunto il periodo glaciale tutto si ricoprì di neve, la neve non fece in tempo a fondersi e si trasformò in un ghiacciaio dallo spessore ognora crescente, che per l’immane peso cominciò a scivolare verso il basso mentre nuove incessanti nevicate lo rifornivano costantemente.

Finì per unirsi ad un ghiacciaio immenso che scendeva lungo la valle del Ticino. Il terribile attrito dei ghiacci smussò ogni sporgenza delle rocce; lisciò pendi e poggi, arrotondò le cime, rese più profonde le valli.

Orsi giganteschi, cervidi, e colossali mammouth s’aggiravano in quello squallido mondo.

Poi, per l’eterno avvicendarsi delle cose terrene destinate ad un perpetuo rinnovamento, anche l’epoca glaciale ebbe fine per il rnitigarsi dell’aspro clima.

I ghiacciai presero a fondersi dando vita a fiumi irruenti che corsero verso il piano tutto trascinando.

La Valveddasca, allorché fu liberata dalla bianca coltre nevosa, si trovò con le cime smussate ed arrotondate (solo le più alte sfuggirono alla pressione glaciale), lisciata, scavata ed approfondita e sul fondo il velocissimo Giona che, favorito dalla natura delle rocce facilmente erodibili, rese profondissimo il suo solco creando la pitto­resca forra in cui scorre. Il fiume, accumulando il materiale rubato alla valle, costruì, al suo sbocco nel lago, il bel piano verde semicircolare su cui ora si espandono i due paesi.

In alto rimasero pochi frammenti del fondovalle glaciale e su di essi terriccio e ciottoli abbandonati dai ghiacci e, poiché la mancanza di spazio impedì ogni insediamento umano presso il letto del Giona, lassù si raccolsero i paesi la cui strana collocazione stupisce il visitatore.

I terreni morenici rimasti offrirono possibilità di culture e le cime tondeggianti vasti pascoli.

La conca in cui si formò il lago Delio, certi solchi curiosi che si vedono qua e là, ad esempio a S. Rocco di Campagnano, il lago Maggiore stesso, furono anch’essi il risultato della potente opera d’erosione dei ghiacci.

L’azione scavatrice del Giona continua naturalmente rapida e incessante e già alcune vecchie rogge abbandonate hanno il loro imbocco ad una certa altezza dall’attuale letto del corso d’acqua: il  delta, alla foce, va sempre più avanzandosi nel lago e finirà per raggiungere l’opposta sponda.

I laghi sono destinati a scomparire. Si guardi ad esempio di quanto si sia già avanzato nel Verbano il delta del Maggia presso Locarno e si pensi che il lago di Mergozzo era unito un tempo al Lago Maggiore e che le antiche storie vogliono che vi si andasse comodamente in barchetta.

C’è anche chi ha tentato di calcolare la vita residua del Verbano, tenendo conto dei materiali che annualmente vi portano i fiumi, ma noi lasciamolo ai suoi astrusi calcoli e passiamo a conoscere intimamente la natura dei nostri monti.

Se ci avviciniamo ad esaminare le loro rocce, le troviamo formate da piccoli nuclei di minerali diversi disordinatamente sovrapposti. Tre sono i principali: il quarzo, la mica, il feldspato.

Il quarzo si presenta sotto forma di lenti biancastre, talvolta leggermente trasparenti, assai dure, la mica è costituita da infinite scaglie sottilissime, lucenti, argentee, o dorate, o nerastre, scambiate spesso dai profani per argento, il feldspato è un minerale più opaco, comunemente bianco, un poco meno duro del quarzo.

I petrografi chiamano le rocce così costituite col nome di gneiss. Poi, secondo la presenza o meno dei tre elementi o di altri minerali, le distinguono con altri nomi; ad esempio quando manca il feldspato le chiamano micascisti (col termine generico di scistose indicano le rocce costituite da lamine o straterelli di minerali sovrapposti).

Gneiss e micascisti formano le nostre montagne. Essi non recano tracce di esseri viventi, sono le rocce più antiche della nostra provincia, lo zoccolo sul quale poggiano i monti varesini digradanti verso il piano.

Il ricercatore paziente vi potrà trovare innumerevoli minerali, pirite, marcassite, calcopirite, arseniopirite, galena, grafite, quarzo, granati, tormaline e altri ancora (basta cercare fra i sassi del Giona il cui greto è un campionario delle rocce della valle), ma sempre in quantità esigue.

Tuttavia veri filoni metalliferi esistono in vari punti e particolarmente al Ronco delle Monache, dove anni or sono se ne tentò uno sfruttamento razionale. Scriveva nel 1877 il Curioni eminente geologo:

Nella montagna ad est di Maccagno Sup. vennero riconosciuti ed esplo­rati due filoni cupriferi paralleli, distanti pochi metri l’uno dall’altro, quello più a nord è chiamato Orassio e il più meridionale Ronco Monache. Nel filo­ne Orassio la matrice (dicesi matrice la roccia madre che lo racchiude) è co­stituita da calcare lamellare e da quarzo. Nelle fioriture domina la pirite bian­ca e marcassite (ferro e zolfo), ma al di sotto si manifesta anche la calcopirite (ferro, zolfo e rame). La direzione di questo filone è da nord a sud.. Il maggior spessore arriva a 75 cm., ma il minerale buono vi è disseminato molto irregolarmente... Vennero eseguite su questo filone tre gallerie di ricerca, l' una sotto l’altra, che non condussero a buoni risultati. L’altro filone corre paral­lelamente.. La natura cavernosa del quarzo ha permesso l’accesso dell' aria e dell’acqua; la calcopirite venne decomposta e gli ossidi di rame e di ferro si sono concentrati in alcune cavità della roccia quarzosa... Questo filone è di vario spessore, ma può calcolarsi di mezzo metro... Anche questo filone venne esplorato a tre diversi livelli con gallerie che in complesso arrivano alla lun­ghezza di 170 m...

Queste gallerie sono tuttora facilmente rintracciabili benché l’imbocco sia mascherato dal bosco e da detriti.

Nella zona Orascio-Ronco delle Monache, oltre ai suddetti, esistono altri filoni minerari, ma di nessuna importanza, alcuni sono stati tagliati dalla strada Maccagno-Zenna.

In VaI Grande affiorano anche banchi lenticolari di quarzo di un certo spessore che si tentò di sfruttare più volte. Purtroppo la frequenza di minerali nella nostra plaga, non si accompagna ad  abbondanza ed ogni tentativo di sfruttamento riuscì sinora passivo.

Il citato Curioni segnala anche giacimenti di blenda (zinco e zolfo) di galena (zolfo e piombo) e di pirite aurifera lungo il Giona. Da Maccagno gli giunsero campioni di:

Solfuro di ferro aurifero in cristalli dodecaedri isolati nella matrice di quarzo, il quale ha l’aspetto tarlato per la seguita decomposizione di parte dei cristalli di pirite. Procede dalle antiche cave abbandonate da molto tempo lungo il torrente Giona a Maccagno Sup.

E circa la galena scrive:

« Maccagno — Galena commista con molta blenda ferrifera disseminata nel quarzo, procedente dalla valle Giona, a Maccagno, in un giacimento non ancora ben determinato, ma che presenta l’aspetto delle quarziti micacee comuni. — Vennero aperte cave recentemente in questo giacimento, ma i lavori di semplice esplorazione furono presto abbandonati. Il piombo che se ne rica­vava contiene mg. 1,3 d’argento per grammo

Galena antimonifera e blenda ferrifera disseminate nel quarzo si rinvengono frequentemente nei micascisti della valle.

L’ultimo tentativo di sfruttamento della galena, risale al 1870. Una ditta innalzò un capannone con forni e crogioli per la fusione del minerale in località Girotto di Maccagno Sup., ma visti i risultati negativi abbandonò ben presto le ricerche. La presenza di tracce d’oro nelle sabbie del Giona, oro cercato a più riprese, è nota ed un’antica storia racconta di un vecchio che passava le ore aggirandosi lungo il fiume e che un giorno improvvisamente scomparve. Nella solitaria casa dove abitava, si trovarono dei piccoli sacchi di pelle di capra e sul loro fondo un pò di polvere d’oro. Il vecchio l’aveva trovato lungo la valle. Dove, la storia non dice, termina invece raccontando che il ricercatore divenuto ricco abitò poi in un palazzo di una meravigliosa città...

I filoni minerari di Maccagno sono noti da molto tempo. L’Amoretti nel suo libro: « Viaggio ai tre laghi, già nel 1794 scriveva:

« Passata la Gionna, torrente in cui pretendesi di trovare della miniera d’oro, si perviene a Maccagno detto regio... ed anche in questa vicinanza v'ha degli indizi di pirite aurifera e di miniera di ferro

Passato poi nella sua descrizione agli altri paesi del lago, giunto a parlare di Carmine dice:

Si passa la punta della Creta ove s’è incominciato uno scavo per pren­dere un filone di pirite ma s’abbandonò tosto l’opera... Gli indizi della pirite qui trovata, che combinansi con quella dell’opposta valle della Giona, non potrebbero essi somministrare argomenti dell’essere stati una volta congiunti i monti di Cannero a quei di Maccagno per elevato piano, in cui l’acqua scavato abbia il catino del Verbano?

Ed in fondo aveva ragione!... Ai tempi dell’Amoretti gli studi geologici erano ancora ai primi passi e pochi erano quelli che si preoccupavano di chiedersi il perché di ciò che ci attornia. La gente credeva che così fosse dall’inizio dell’era terrestre e non domandava di più.

I minerali erano però cercati attivamente poichè la scarsità di comunicazioni rendeva difficile e costosa la loro importazione. Di solito venivano lavorati sul posto.

Ma chiudiamo questa parentesi mineralogica e ritorniamo ai nostri micascisti.

Lo gneiss ed il micascisto per la loro struttura lamellare, per la fratturazione minuta e per la facile decomposizione ad opera degli agenti atmosferici, diventano facilmente porosi, e quindi ricettacolo di acque che gelando spaccano le rocce, od infiltrandosi, provocano frane.

Sono perciò causa di slavine che, talvolta arrecano danni agli abitati ed ai terreni. Esse costituiscono un poco il punto nero della Veddasca e lo sanno i costruttori delle sue strade costretti frequentemente a puntellarle o a sgomberarle dal materiale caduto.

A tali rocce dobbiamo però anche qualcosa di buono. Facilmente alterabili, forniscono insieme alle morene, quello strato di soffice terreno che ricopre i pendii delle nostre montagne ed alimenta la ricchissima vegetazione che le riveste. Castagni, betulle, faggi, frassini, noccioli, ecc... vi dimorano egregiamente insieme ad agrifogli, lauri, ed alte ginestre dai bei fiori giallo-oro, a consolazione e meraviglia del villeggiante che giunge a cercarvi ristoro di fresche ombre e riposo.