IL DURO PERIODO MEDIOEVALE(2)

I Maccagnesi difendono la loro indipendenza da Milano

I grossi comuni italiani dopo la vittoria sull’imperatore este­sero, come è noto, poco a poco il loro dominio sul terri­torio circostante combattendo coloro che si opponevano alla loro espansione.

Maccagno si trovò un bel giorno alle porte i Milanesi divenuti padroni del contado del Seprio che giungeva allora sino alla Tresa e forse oltre.

Per un certo numero di anni non vi furono guai, ma improvvisamente nel 1279 i Milanesi riesaminando i catasti del proprio comune, trovatisi quel paesino a portata di mano lo considerarono senz’altro dei loro, e pregarono i dirigenti del villaggio d’inviare l’inventario dei propri beni a scopo evidentemente fiscale. Figuratevi i Maccagnesi! Ubbidire, significava riconoscere la supremazia di Milano e di far parte della sua giurisdizione. Per mezzo del proprio sindaco; « Antonius fihius quond.m Uberti Taliachi », presentarono ad un certo Nicolino della Torre, dottore in legge e preside dei nuovi uffici degli Inventari Milanesi, una petizione in cui dopo aver dichiarato che il luogo di Maccagno Inferiore non era territorio milanese, ma libera Corte Regale dell’Imperatore, lo pregavano di annullare l’ingiusta richiesta. I milanesi non si spaventarono per nulla di tanta « regalità », ma tuttavia dimostrando senso di giustizia presero in esame l’affer­mazione dei Maccagnesi. La sentenza che concluse la questione è interessante per la procedura usata e per i documenti citati a prova dell’indipendenza del paese (Arch. D.).

Diedero l’incarico a notai di esaminare una serie di documenti ufficiali e di riferire per scritto, se per caso in essi si facesse cenno della sudditanza di Maccagno da Milano, ma non trovarono nulla. Controllarono anzitutto un « Libro vitae patrum », poi un « Libro Aestimationis terrarum » poi un « Libro anthiquorum privillegiorum » concessi da « Quondam D. Federico Imperatore » ai Sepriesi. In quest’ultimo trovarono che i confini del Contado del Seprio erano i seguenti:

« A Lacu Majori $icut pergit flumen Ticini usque a Padregnanum et a Padregnano usque ad Cerrum de Para­biago, et a Parabiago usque ad Karon, et a Karon usque flumen Sevesi et a Seveso usque ad flumen Trexae sicut Trexa refluit in lacu Majori

Ma non ancora soddisfatti vollero controllare se tali confini fossero uguali a quelli riportati in altri documenti e li confrontarono con la descrizione fattane nell’atto della « Concordia facta inter Federicum Imperatorem et Mediolanenses », non basta, esaminarono anche un documento del 1237 in cui Guido Mandelli investiva un Lanfranco Francesco di Maccagno della « Gualdamagnia » ossia « de totto illo ministerio Gualdamagniae quae et quod pertinei vel pertinere posset ullo modo vél tempore curti de Machaneo », ascoltarono i testimoni prodotti dai Maccagnesi a sostegno della loro affermazioni, esaminarono la relazione stesa dal notaio Andeloi (?) Bocardo appositamente inviato a Maccagno dal giudice Nicolino della Torre per constatare la verità di ciò che dicevano i Maccagnesi. Questi riferì che il paese è a circa tre miglia al di là della Tresa e quindi oltre i confini Sepriesi e per meglio chiarire il suo concetto, disse che non si poteva accedere a quel luogo se non oltrepassando tale fiume: « Ad dictum locum ire non potest nisi transeundum flumen Trexae et lacum Majorem ».

Il contado del Seprio già un tempo apparteneva alla giurisdizione milanese ed il provare che si era oltre ai suoi confini dimostrava che nel passato non si era mai stati sottoposti a Milano. E non basta ancora. I Milanesi fecero indagini anche presso persone degne di fede « illarum partium » circa la verità delle affer­mazioni dei Maccagnesi e gli interpellati risposero che « vox et fama est inde quod dictus locus de Machaneus hinc retro stetit et fuit semper ex quo recordatur in fra quod non soluerint neque so­stinuerint aliquod fodrum vel onus cum communi mediolani nec inventaria dederunt comuni mediolani de suis bonis »; e che « il­lum Locum esse curiam regalem DD. De Mandello per D. Impera­torem ». Il sindaco maccagnese fu invitato a giurare sui Santi Evangeli che Maccagno Inferiore « non est de jurisdictione Mediolani, sed regalis Curia Imperatoris et quod in retro non stetit dictus locus nec Homines dicti Loci suppositi comuni Mediolani... et quod in prae­dicta immunitate steterunt per tantum tempus cuius non extat me­moria, et quod dictus locus situs est extra confinia Comitatus Mediolani ».

Questa lunga serie di testimonianze favorevoli ai Maccagne­si convinse i giudici della verità di quanto i postulanti sosteneva­no, essi infatti conclusero: « Dicimus et pronuntiamus et per sen­tentia declaramus » che il comune e gli uomini del luogo di Mac­cagno non potevano essere costretti dai governanti milanesi attua­li e futuri a consegnare inventario alcuno dei loro beni. La sentenza fu data dal « banco » del giudice sopraindicato al­la presenza di una serie di testimoni. Il sindaco di Milano, parte avversaria, un certo « Vicecomite de Raixana » non si degnò di presentarsi al giudizio.

Storia di un antico detto

SIAMO ora intorno al 1410. Sospendiamo un momento la narrazione storica e ritorniamo alla nonnina che conosce le leggende del paese.

E’ l’epoca in cui i famosi fratelli Mazzarditi, dopo aver tiranneggiato Cannobio, insediatisi sugli isolotti emergenti dalle acque del lago di fronte a Cannero, sui quali ora sorgono i famosi castelli, terrorizzavano le popolazioni costiere, aggredivano i navigli, imponevano taglie. Due poveri popolani della Valveddasca, che si recavano a vendere del bestiame a Luino, furono assaliti e derubati nelle vicinanze della città; Angera, la Valtravaglia e Cannobio subirono più volte le loro violenze; una notte eccoli a Maccagno Inferiore. In una casa poco fuori del paese (è la graziosa vecchina che racconta) vivevano alcune giovanette rimaste orfane. Brutti sgherri dei Mazzarditi, nottetempo, con una barca si portano a Maccagno e quatti quatti, attraverso le campagne, giungono alla casa. Bussano; alla voce che chiede chi è, risponde uno di essi con tono lamentoso domandando pane; i compagni attendono nascosti nell’ombra. E la porta si apre; ma un grido sfugge alla fanciulla che reggendo un lume è apparsa, poichè parecchi figuri sono balzati in avanti. Altre grida lanciano le sorelle richiamate da quel primo urlo e nel paese è un accendersi di lumi, un incrociansi di voci, un aprir di porte e di finestre. Che è? Che non è? Ah... è laggiù fuori del paese! In men che non si dica una folla armata di roncole, forconi, spade, si dirige di corsa alla casa. I loschi messeri fanno appena in tempo a balzare fuori; inseguiti, aggrediti, percossi e malconci, a malapena riescono a fuggire aiutati dalle tenebre. La severa lezione impartita è risaputa con soddisfazione nei paesi vicini e nacque il detto che anni fa ancora udivasi nei nostri dintorni ad ammonimento dei prepotenti:

« Va, va a Maccagno che ti insegneranno la buona creanza! ».

Il momento più drammatico della storia Maccagnese

GIUNGIAMO ora al momento più drammatico della storia maccagnese.

L’11 luglio 1438 il duca di Milano, Filippo Maria Visconti, concedeva la Pieve della Val Travaglia in feudo al Conte Franchino Rusca.

Detta Pieve comprendeva ecclesiasticamente anche Maccagno Inferiore (vedi a pag. 146) e al Conte Rusca non parve quindi ingiusto ritenere il paese suo possesso e pretendervi dei tributi, ma si tro­vò di fronte l’opposizione dei Maccagnesi per nulla intimoriti dal suo nome altisonante. Questa volta i Mandelli, che pur erano i legittimi proprietari del feudo di Maccagno Inferiore, se ne stettero in ombra e non comparironò nella lunga questione, almeno come parte attiva; i documenti trovati rivelano solo l’opposizione fatta dagli abitanti toc­cati direttamente dal contributo imposto. Vediamo ora per comprendere con chi i Maccagnesi avessero a che fare, chi fosse il Conte Franchino Rusca.

Era egli di nobile famiglia comasca, erede del feudo di Balerna e di parte della valle di Lugano. Spogliato da Filippo Maria Visconti, duca di Milano, dei beni ereditari, ebbe poi dallo stesso, verso la fine del luglio 1432, l’investitura di Arona e nel 1438 quella della Valtravaglia. Nel 1439, in cambio di Arona, ebbe Locarno con la pieve e le valli retrostanti ed il titolo di conte di Locarno. Era uomo d’armi. Alla morte di Filippo Maria Visconti assoldò un esercito e tentò di riprendere i possessi già goduti dalla sua famiglia nel Comasco. Mise a sacco Porlezza col suo castello, possesso dei Milanesi, ma fu sconfitto presso Chiasso da Giovanni della Noce governatore di Como, rappresentante della repubblica formatasi a Milàno alla morte del duca sopracitato. Il Rusca ritentò allora la sorte sulle rive del Lario, ma, nuovamente vinto, fu inseguito sino al castello di Locarno, dove fu assediato invano. Successo il duca Francesco Sforza nel governo di Milano, il Rusca compresa l’inutilità dei suoi tentativi, si mise astutamente ad appoggiare il nuovo signore che lo riconfermò nei propri feudi e gliene concesse anche degli altri (1451).

Ma torniamo indietro.

I Maccagnesi alle pressioni del Rusca si rivolgevano al duca Filippo Maria Visconti perchè salvaguardasse i loro diritti. Il duca incaricava con lettera in data 16 dicembre 1438 un certo Todeschino (Camerario dell’Ufficio delle Entrate Straordinarie del Ducato) di esaminare la petizione presentata dai supplicanti e il Todeschino iniziava il suo lavoro. Avevano « reverentemente » chiesto i Maccagnesi di far presente che essi appartenevano a una « terra per sè » esclusa quindi dalla donazione fatta al conte Franchino Rusca il quale da più mesi molestava il paese, tramite i suoi ufficiali, desiderando sottometterlo alla sua giurisdizione, facendosi forte della concessione avuta della Pieve della Valtravaglia:

« quod cum pluribus iam exactis mensibus comes Franchinus de Rusconis qui ab eadem dominatione vostra concessionem habere dicitur de totta plebe Travaliae offitiales sui vellent ipsos exponentes sibi subjcere et ad obedentia suam reducere tamquam esset de Plebe Travaliae..»

Il Todeschino ed i suoi aiutanti iniziarono il solito esame dei documenti comprovanti l’indipendenza di Maccagno: la sentenza del 1279,quella del 1401 contro il capitano d’Angera, quella del 1421 contro l’Ufficio di Provvigione di Milano, una lettera ducale del 1425 ed ascoltarono anche una serie di testimoni d’ambo le parti. Quelli del Rusca non poteron dir altro che Maccagno Inferiore era della Valtravaglia e che quindi avrebbe dovuto appartenere al feudatario ditale Valle.  I magistrati però non poterono non « dare et liquide constare quam iam annis fere ducentis » che il luogo di Maccagno Inferiore era « per sè e Curia Regale » sotto il possesso dei Mandelli per virtù di antichissimi privilegi e non concludere che Maccagno doveva essere lasciato in pace ed infatti così dichiararono in una sentenza emanata nel luglio 1440.

Al Duca non rimase altro che approvare quanto i suoi magistrati avevano onestamente concluso ed essi confermavano la loro decisione con   una lettera in data 4 luglio 1441 dando disposizioni perchè si avvisassero, secondo il solito, gli interessati. Il Rusca si mise tranquillo, ma covò nell’animo la rivincita. Nel 1447 il duca Filippo Maria moriva; succedeva l’effimera Repubblica Ambrosiana, poi Francesco Sforza. Già abbiamo visto come il Rusca impiegasse in questo periodo il suo tempo. Fattosi amico dello Sforza riprese a minacciare il nostro paese. Ma si trovò nuovamente di fronte alla tenace opposizione degli abitanti.

Ed allora agì di prepotenza.

Siamo intorno al 1459. Indispettito, fece nottetempo circondare il paese dai suoi sgherri capeggiati dall’ufficiale di Luino, e trasse « con la forza » prigionieri i maggiorenti del villaggio nelle carceri del suo capoluogo. lvi li trattenne 32 giorni e non li lasciò liberi fino a quando si piegarono a prestare giuramento di fedeltà. Non solo, ma li costrinse a pagare « una tazza di 15 once » di monete d’argento « ambrosino » quale tributo, ed avendo essi ricusato l’anno successivo di pagarla nuovamente per « l’estrema paupertate del luogo » e per l’ingiustizia della pretesa, fece imprigionare daccapo gli esponenti del paese e li tenne in carcere per altri otto giorni, ossia fino a quando giurarono che si sarebbero assoggettati a tale censo annuale. Infine non fidandosi del giuramento fatto, li obbligò a convalidare con un atto notarile quanto avevano giurato.

E’ facile immaginare lo sdegno dei Maccagnesi, il parlottare, le ansie, i propositi di vendetta. Ma che potevano fare contro un signore così potente? Non restava che rivolgersi al nuovo Duca e chiedere di essere « ripristinati »  negli antichi diritti e negli antichi signori « come vuole la ragione » e rimborsati delle tazze di monete d’argento ingiu­stamente estorte, altrimenti essi scrivevano « DICTI HOMINI SARIANO CONSTRETTI AD ABBANDONARE DICTO LOCO » cosa che non pensavano conforme al desiderio del Duca.

Di fronte a tanta decisione e tanto dolore il Duca non poteva restare indifferente.

Scosso dalle loro veementi proteste « vehementius insistent et flagitent »,. delegò certi Raffaele Busseto e Giovanni Arcimboldi a prendere in esame la petizione dei Maccagnesi ed a controllare la veridicità dei documenti ad essa allegati. Costoro nel febbraio del 1463 dichiaravano che ciò che i Maccagnesi sostenevano rispondeva al vero ed al giusto ed il Duca il 15 luglio 1464, dopo un altro accurato esame della questione, ordinava al Rusca di lasciare in pace Maccagno, non solo, ma lo multava di dieci ducati d’oro da rimborsarsi ai Maccagnesi: « dicimus, sententiamus pronuntiamus... et declaramus dictum Commune et homines Machanaei Inferiore tamquam liberos exemptos et separatos a Communitate Mediolani et a quocumque alio loco NON POTUISSE NECQUE DE­BUISSE... URGERI PER PRAEDICTUM Com. Franchinum nec alio pro eo... » (Arch. D.).

Ma per udire direttamente le lamentele dei nostri lontani antenati vale la pena di riportare la loro accorata petizione che inizia con un azzeccatissimo « lacrimosamente » ben denotante il loro tri­ste stato d’animo:

Ill.mo Principe et eccell.mo Sig.

LACRIMOSAMENTE sono costretti a ricorrere al fonte di Giustizia di V. Ecc., Commune et Homini di Machagno di sotto che quamvis la detta terra e detti homini anni duecento passati e più siano sempre stati se parati ed esenti da ogni carico così dalla città di Milano come etiandio da ogni altro luogho, ma solum siano stati sottoposti a certi nobili da Mandello come appare chiaramente per infiniti suoi privilegi concessioni et altre diverse ragioni; tamen il Magnifico Go: Franchino fin de anno 1438 co’ ogni studio e sollecitudine sforzasse ponere li detti in sue subiectione e gravarli di diversi carichi contro il solito e le dette soi ragioni.., furono const retti ricorrere all’Eccellenza della felice bona memoria Ill. Duca Philippo et avendo inteso la prelibata E. la loro lamenta per scripto del sp.le Thodeschino fece far Commissione sopra di ciò alli sp.li maestri suoi extra ordinari vocati vocandis dovessero èt il suo parere riferiscano al predetto Thodeschino... alti quali Magistrati per dui anni il predetto Go Franchino per lettigio e varie spese li condusse et, dum re intelecta, li p.ti magistrati fecero suo giudizio qual mandarono al p.to Todeschino qual giudizio è di q.to effetto, cioè che ducendo anni passati il detto loco di Machagio è stato loco separato et da per se e Corte Regale et exempto da ciascuno carico così dalla città di Milano come etiandio (da ciascun altro loco, ma che è stato e di presente subiecto a certi nobili di Mandello, per vigore de antiquissimi Previleggy imperiali ad essi da Mandello, Co/e et Homini concessi et che a tanto tempore citra che non è memoria in contrario detta terra Comune et Homini per exempti separati et subiecti a detti da Mandello sono tenuti reputati et preservati fin ad hora presente come più largamente si con­viene in esso giudizio e relatione; Dat. Mlni a di p.° de Julio 1440. Qual giuditio e relatione et omnia in eo contenuta per patente l/re del prelibato D.° Principe Duca Filippo Maria sono ad consilium confirmate ratifi­cate et approvate per vigore di esse Lre Datum alli 4 Julio 1441, e così per vigore di esse littere privileggy sen/tie et altre divverse ragioni detto loco et Homini sempre preservati esenti e separati uts. a fin all’anno 14.. vel circa, nei qual anno il p.to Co Franchino vedendo non potendo haver d.° Loco e Homini con false promesse mandò ad esso loco il suo uffitiale da Luvino con molte Persone noctis tempore, et fece pigliare... delli miliori della detta terra, e così presi... privatum carcerem li tenne circa a dì 32 in prigione a Luvino per la quale violenza furono constretti giurare fedeltate nelle mani dei notaro del p.° Go: de non.., carichi alcuni ad essi Homini, e non contento delle predette cose già 4 vel circa constrinse li detti homini a dar per censo tazza una d’ar­gento ambrosino da onze 12, et successiva vel altro anno richiedendo un altra tazza per suo censo contro il debito, però recusando detti homini dar detta tazza per la estrema paupertate sua e per esser loro impotenti a pagar et massime quello la raggione non voleva fece in questo anno mettere in prigione tutti li homini e li tenne per giorni otto continui committen.° simil.r privatum carcerem ne mai li volse relassare sin, che non se obligassero verso S. S. de dar ogni anno a lui et a suoi eredi una tazza da onze 15 de argento Ambrosino, e questo per pubblico instrumento et da poi in qua similiter sono costretti pagar una tazza de onze 15 d’argento ambrosino licet iniuste qual obbligatione vedendo lui esser nulla però era meticulosa fece postmodum da essi homini confirmare per pubblico Instrumento qual similiter fu et è meticuloso. Il perchè umilmen­te supplicano detti communi et homini de Machagnio V.ra clem. Sig.a che si degna far detti instrumenti  de fidelitate obbligatione e confirmatione et ogni cosa si contiene in essi annullar penitus e procedere che detti homini non siano più sottoposti e malmenati da d.° Go Franchino ne suoi ma solum siano sotto­posti a detti da Mandello quali sono li figliuoli del quondam domino Jacomo da Mandello come vuole la raggione et etiandio siano satisfati delle dette tre tazze violenter exacte da detti Flomini ed altri suoi danni patiti  ALITER DICTI HOMINI SARIANO CONSTRETTI AD ABBANDONAR DICTO LOCO CHE NON CREDONO (CONFORME ALLA) MENTE DI V. S. ALLA QUALE SI RACCOMANDANO ». (Arch. D.) (4).

(4)    Ma non solo verso Maccagno Inf. il Rusca agì con prepotenza, stancò anche i sudditi dell’intera Valtravaglia, tanto che questi in un’adunanza (a cui parteciparono circa 300 capi famiglia) indetta da un messo del Duca di Milano il 20 novembre 1463 facevano chiaramente presente « che non volevano il conte Franchino Ruscha per suo signore et che più presto (?) habandonavano il paese » e si rifiutavano di accettarè il podestà proposto dal suddetto conte « et quaso li menazano de farli male » (da una lettera dell’incaricato del Duca conservata nel Carteggio diplomatico dell’A.S.M.).

 

E ancora una leggenda

NATURALMENTE la fantasia s’impossessò dell’accaduto e ne conservò memoria; conviene perciò cedere ancora una volta la parola alla nostra gentile vecchina che sa molte cose sulla storia del paese.

« Viveva un tempo, essa racconta, un cattivo Signore nel castello di Travaglio. La sua dimora era circondata da alte mura e feroci sbirri ne pre­sidiavano le porte. Nessuno osava spingersi fino alle soglie del maniero.

Quando l’alto Signore, Il conte Franchino, usciva a visitare le sue terre, I sudditi che incontrava s’inchinavano fino a terra, ma egli passava altero sul suo cavallo scalpitante senza degnarli dl uno sguardo. Nessuno osava far motto contro di lui.

I suoi possedimenti si stendevano su quasi tutto il Lago Maggiore e i suoi ufficiali taglieggiavano con prepotenza gli abitanti dei paesi e i mercanti che scendevano dalle vallate verso le fiere del piano.

Un giorno si vide una grossa barca dirigersi alla volta di Maccagno Inferiore. La spingevano robusti vogatori e a prua ritto ed Impettito stava un capitano con la spada al fianco ed un mantello di colore oscuro con le insegne del conte. Alle sue spalle s’intravedeva un gruppetto di guardie armate. Giunto alla riva l’ufficiale balzò a terra e lo seguirono i suoi fidi. (e... a questo punto, la narrazione soleva passare al presente...).

Dov’è il sindaco di Maccagno? chiede

Gli additano la sede del comune, che sorgeva fra le case e subito vi si dirige seguito dai suoi.

Pervenuto al palazzo uno scudiero dà fiato ad una tromba e poi a gran voce chiama il sindaco.

Questi scende sulla via e si muove affabilmente incontro al capitano e chiede le ragioni della visita.

Quegli con gesto solenne estrae da sotto il mantello una pergamena e svolgendola lentamente comincia con voce imperiosa a leggere. Contiene una lunga ordinanza del conte Franchino che vuole che da quel dì innanzi gli abitanti di Maccagno Inferiore gli facciano atto di sudditanza, gli portino rispetto e gli versino un tributo di monete d’oro.

Cortesemente il sindaco fa notare che il conte non può pretendere ciò perchè Maccagno Inferiore è Corte regale e non riconosce altro’ signore oltre a quello designatogli dall’imperatore.

L’altero ufficiale risponde che nella zona non vi è altro signore che il conte Franchino e che si deve ubbidire.

Nuova cortese obbiezione del sindaco il quale ricorda che diplomi imperiali salvaguardano il paese da ogni soggezione, ma il capitano interrompe il suo dire e calcando bene la voce ribadisce che quelli. sono gli ordini del conte.

Intanto attirata dall’insolito fatto la gente del paese è uscita dalle case e s’è fatta intorno ad ascoltare silenziosa. Un’espressione di sdegno s’accresce di minuto in minuto sul volto di tutti. Ciò innervosisce il caparbio messaggero che ripetendo ad alta voce l’ordine del conte suo signore agita il rotolo di pergamena e con quello tenta di percuotere il volto del sindaco. Questi gli strappa la pergamena e la getta per terra.

Il capitano e gli sgherri metton mano alle spade e ai pugnali, ma la folla scatta verso di loro e li travolge, finirebbero male se il sindaco inframmettendosi non calmasse gli animi. Sono riaccompagnati alla barca, e rimandati malconci dond’eran venuti.

L’accaduto turba gli abitanti, si sa che il conte Franchino è feroce e vendicativo e che la sua reazione non mancherà.

Si sbarrano vie e porte e si attende vigilando il passar dei giorni. Trascorrono alcune settimane, ma nulla accade. Si comincia ad esser più tranquilli. Una notte nera di nuvole e pioggia, una, due, tre e più barche approdano senza far rumore lungo l’arco della riva.

Scendono in silenzio uomini armati che si raggruppano in squadre e per vie diverse muovono a sbarrare le strade uscenti dal paese. Poi un forte gruppo di sgherri con la mano pronta sull’elsa della spada si porta decisamente alla casa del sindaco. L’imperioso bussare alla porta desta gli abitanti, ma è troppo tardi per reagire, vi sono armati dovunque.

Chi tenta la fuga s’imbatte nelle squadre che sbarrano le contrade. Solo pochi giovani agili, per la via dei tetti, riescono a raggiungere la costa del monte sovrastante il paese e a portarsi veloci alla frazione Venero ove sostano a spiare cosa succede. Li raggiunge poco dopo., uno dei figli del sindaco che, entrato nascostamente nella sala del comune aveva asportato i diplomi imperiali.

Il sindaco è arrestato e con lui i consoli, gli ufficiali del comune, i campari ed i maggiorenti.

Legati con catene vengono trascinati alle barche, fatti salire e condotti al castello del conte, ove sono gettati in orribili celle. Alto è il pianto delle donne, dei bambini e dei vecchi, rimasti fra le case. I giovani sfuggiti alla cattura, adirati e inorriditi dell’arresto dei loro padri a marce forzate muovono verso il piano. Raggiungon Milano ov’è l’imperatore e sono sfiniti quando si presentano alle soglie del palazzo.

Forti dei diplomi imperiali vengono a chiedere giustizia.

Udito il motivo dei loro affanni, udite le loro commoventi parole di fedeltà e sudditanza, riconosciuta la validità dei loro argomenti, constatata la loro fermezza ed il loro coraggio, l’imperatore si smuove. Dà ordini ad un messo di raggiungere velocemente la Valtravaglia: il conte Franchino rilasci il sindaco e gli uomini di Maccagno e non molesti più quella terra altrimenti gliene verrà male.

E il conte Franchino deve chinare la testa, ridare la libertà ai prigionieri, rispettare i privilegi imperiali.

Immaginatevi il giubilo dei Maccagnesi al ritorno dei loro cari. Si suonano le campane, si dà fiato alle trombe, sulla torre s’innalza il gonfalone e di notte gran fuochi sono accesi sul monte e sulla riva del lago per ricordare ai paesi circostanti che Maccagno Inferiore è Corte Regale degli Imperatori, indipendente da ogni soggezione, terra per sè.