LA VITA A MACCAGNO
INFERIORE NEL SUO PERIODO AUREO
Il periodo
aureo della storia Maccagnese ha inizio col ripristino dell’autorità
imperiale in Italia (1536) e termina
con la morte del conte Giacomo TI Mandelli (1646).
A partire dal 1500 i documenti del piccolo
villaggio s’infittiscono e le cose da dire di conseguenza sarebbero molte.
Il raccontar tutto sarebbe bello ed
interessante, ma esula dal programma steso per questo lavoro.
Approfittiamo però della maggior ricchezza di
documenti per dare un’idea dell’organizzazione del feudo e della vita che
vi si svolgeva.
Cominciamo col descrivere i confini del
territorio.
Confini e popolazione
E'
strano, ma il delineare i confini di allora del piccolo paese
(p. 2240 in tutto) non è facile poichè verso Agra non furono mai ben
definiti per disaccordi circa l’area delle zone comuni.
Grosso modo la linea di confine del piccolo
feudo era la seguente: partiva da poco sotto la cima del monte dei Ronchetti
di Agra, correva al di sotto della linea di cresta e si portava verso le
Campagnette scendendo gradatamente verso il fondovalle, poi per il vallone
detto Gambarera raggiungeva il fiume Giona, ne seguiva il corso fino al lago,
continuava lungo la riva di quest’ultimo sino al Sasso Moro di Colmegna e
infine con alcuni zig-zag risaliva la costa del monte fino a raggiungere il
punto di partenza (vedasi meglio a pag. 115).
Circa il numero degli abitanti nel XVI secolo, non abbiamo che alcuni stati d’anime
conservati nel A.D.M.: un appunto del 1569 denuncia 38 famiglie e 179 anime.
Alla fine del 1600 le famiglie erano salite a 49.
ANCHE nei documenti più antichi il paese
già appare come una Corte Regale dell’Imperatore (Regalis curia Imperatoris - documento
1272), Terra per sè, separata da qualunque dominio, anche dallo stato di
Milano, sottoposta alla famiglia Mandelli.
Il Ducato di
Milano, ed i suoi governanti sono semplici vicini « nostri vicini », gli uomini di Maccagno sono « imediati vassalli della Maestà
Cesarea » (leggi
Imperatore), le ingiurie fatte al feudo sono: « ingiurie
contro l’autorità Cesarea » ecc. (Docc. XVI° sec.).
I feudi imperiali del tipo di quelli di Maccagno Inferiore e dotati di
privilegi analoghi non erano neanche allora comuni; nello stato milanese, alla
data della soppressione dei feudi ne esistevano solo tre:
Maccagno Inferiore, Retegno e Limonta con
Campione.
La
sudditanza del paese ai Mandelli e all’Imperatore era dimostrata, oltre che
dai diplomi, dal pagamento di alcuni tributi. Irrilevanti, o divenuti
irrilevanti, quelli del paese verso i Mandelli « annuatim librarum sexdecim candellarum » (Docc. vari; S. Monti, Comp. cit.),
libbre sedici di candele, da pagarsi il giorno della festa di S. Martino,
nulli o quasi nulli, per un certo periodo di tempo quelli verso il secondo
consistenti in tributi per spese di guerra per la difesa dell’impero, ma poi
improvvisamente pesanti e frequenti sul finire del XVII° secolo, come
vedremo.
L’autorità imperiale non intervenne mai
direttamente nelle cose del feudo, e si limitò a proteggerlo da lontano con
risultati più o meno efficaci secondo le fasi della sua potenza, e a
confermarlo e riconfermarlo ai Mandelli. La riscossione delle tasse ad essa
spettanti, fu affidata al vicario imperiale residente in Italia.
Quando
nel secolo XVIII la Lombardia passò nuovamente sotto il diretto dominio dell’Imperatore
i governanti fecero sentire ogni tanto la loro voce circa il comportamento da
tenere verso i banditi e i disertori che si rifugiavano nei feudi imperiali e
circa i generi di monopolio. Talvolta si stesero addirittura convenzioni,
rispettosissime dell’indipendenza del luogo. (Vedi tav. XV).
I Mandelli furono invece i proprietari dei diritti feudali legati al paese, e
come tali ne poterono disporre al punto da poterli vendere e cercarono di
ottenere il maggior utile possibile dalle concessioni avute: mercato, diritto
di pesca, zecca, ecc. Giacomo Mandelli ne cavava annualmente lire milanesi
12.000. (S. Monti, Comp. cit.). Governarono
il villaggio, come altrove dicemmo, in base a statuti convenzionati con gli
abitanti.
Governo
e amministrazione della cosa pubblica
I Mandelli, presenti o no nel paese, si
servirono pel governo del medesimo di persone di fiducia che nei periodi più
antichi furono spesso i consoli del villaggio.
Nel 1237 troviamo un certo Lanfranco
Francesco di Maccagno Inferiore investito in perpetuo di « Tutta quella Gualdamagnia » e dei poteri ad essa inerenti (Gualdemani
si dicevano di solito allora, coloro che riscuotevano tasse e diritti relativi
all’amministrazione della giustizia).
Nel 1279
è un sindaco, scelto fra i due consoli, che a nome degli uomini dei paese,
conduce le vertenze contro lo stato di Milano (vedi a pag. 30). La figura del
sindaco riappare nel corso del tempo con frequenza, sostituita verso il XVII°
secolo da quella del podestà o del luogotenente del feudatario. Costoro
avevano compiti di sorveglianza generale ed erano coadiuvati da « ufficiali »; nei periodi più recenti del feudo vi
fu anche un fiscale, specie di cassiere, che talvolta sostituì il podestà
nei suoi compiti.
Ma i
veri numi tutelari degli interessi grandi e piccoli della comunità furono in
ogni tempo i consoli (solitamente due) la cui opera appare sin dai documenti
più antichi.
La loro elezione avveniva secondo le norme
stabilite dallo statuto e la loro durata in carica era di un anno. Nomi
diversi si alternano con frequenza pur essendo rieleggibili.
Avevano poteri e compiti assai ampi: vigilavano
sul rispetto dello Statuto, amministravano la cosa pubblica, godevano di
potere esecutivo e perfino giudiziario come diremo, stabilivano la « meta » o prezzo del pane e del vino in base
alle quote del mercato, controllavano i pesi e le misure usate ne]le botteghe,
provvedevano alla manutenzione delle strade, vigilavano sugli argini del fiume
e sull’uso delle acque delle rogge, si preoccupavano che ogni scrittura o
norma interessante la comunità fosse riportata negli appositi registri e
così pure i loro rapporti e quelli dei campari ecc. Questi loro compiti sono
deducibili anche dalle gride riportate e vedasi a pag. 118 come un console
definisce le sue mansioni.
Erano
coadiuvati da « Campari
» specie di guardie
comunali e campestri che avevano compiti di vigilanza urbana ed extra
(salvaguardare, i pascoli, i campi, i boschi sia pubblici che privati dall’intrusione
di estranei, segnalare ai consoli infrazioni alle norme per lo sfruttamento
delle acque del fiume e delle rogge, per l’igiene ecc.
Le leggi fondamentali del piccolo borgo
erano raccolte in uno Statuto di cui
si ha notizia fin dal XIII sec., ma che purtroppo
non siamo riusciti a rintracciare. Il documento più antico che ne fa
cenno risale al 1283 ed è un elenco delle contravvenzioni fatte dai campari a
persone non del luogo sorprese a pascolare capre e a tagliare legna
abusivamente « contra statum et ordinamentum comunis et hominum dicti loci ». (Arch. D).
Lo statuto originario fu ricevuto più volte ed
abbiamo potuto trovare il numero di qualche articolo delle sue edizioni più
recenti:
il XVII stabiliva le norme secondo le quali poteva essere sfruttato il
bosco comune con gli abitanti di Agra, il XV il divieto di lavorare la
domenica senza licenza, il XX il divieto di bestemmiare.
Le
disposizioni emanate successivamente ad integrare ed aggiornare le norme
contenute nello statuto portavano spesso la formula: « . . .ma non intendiamo... derogare gli Statuti
di detta nostra Terra di Macagno, l’osservanza de’ quali vogliamo resti in
sua forza a tutto ».
A
partire dal XVI sec, le norme nuove furono raccolte in gride che solitamente
venivano fatte stampare a Milano e poi affisse ai vari albi del piccolo borgo
e conservate nell’archivio della comunità.
La più antica di cui abbiamo trovato
notizia risale al 1520 e stabiliva una serie di punizioni per coloro che si
permettevano di insultare i consoli ed i ministri del feudo, una del 10 dic.
1555 impartiva disposizioni riguardanti i pesi e le misure e i prezzi da
applicarsi nel paese. Altre contenevano norme di carattere sanitario,
proibivano di danneggiare i boschi comunali, privati, e « circonvicini », di
far legna dove « non è permesso », contenevano disposizioni circa l’uso
delle armi, circa la pesca nel lago proibita senza licenza (vietata in alcuni
periodi), circa la caccia (chiusa dal 7 aprile al 7 luglio), una del 1690
conteneva disposizioni per le riparazioni da farsi alle prigioni, ecc. Di
molte gride abbiamo trovato purtroppo solo riferimenti e segnalazioni, non il
testo. (A. S. M. - Arch.
D - A.P.M.I.).
Per dare
un’idea esatta di come fossero, ne riportiamo integralmente due: una fatta
pubblicare da Giacomo Mandelli tramite il luogotenente Pellegrino Vanni nel
1612 e stampata a Milano da Gandolfo Malatesta « Stampator Regio Camerale » ed un’altra del 1699 addirittura in
copia fotografica. (Vedi tav. XVI).
Non sembra però che queste gride
ottenessero molto effetto poichè gli argomenti. su cui insistono sono spesso
i medesimi.
Dopo la grida del 1612 lo stesso conte
Giacomo ne emana altre: una il 10 gennaio 1620 contro chi ospiterà
abusivamente forestieri, una il 31 maggio 1622 minacciante pene severe a chi
oserà « Dir parole villane agli
Ufficiali e impedir atti di giustizia. ed esecuzioni criminali », una nel 1635, un’altra nel 1643, due
nel 1644, e.,. queste sono solo quelle di cui abbiamo trovato cenno...
Le
pene minacciate ai trasgressori erano di carattere corporale ed economico, le
più comuni consistevano in multe che venivano riscosse e versate alla cassa o
Camera Comitale e talvolta, quando si trattava di trasgressioni alle norme
impartite in materia di religione, alle chiese del paese, specialmente in
occasione della loro ricostruzione o restauro.
La vicinanza
QUANDO i problemi dell’amministrazione del luogo interessavano la
comunità tutta, i consoli erano tenuti ad informarla indicendo la « vicinanza
» o « vicinicia
» o adunanza dei vicini
o abitanti del « vico » o villaggio.
L’incarico di preavvisare la popolazione spettava al « trombetta
» che percorreva le vie
del paese, sostava ad ogni cantonata, dava fiato alla tromba per richiamar
gente e poi procedeva alla lettura dell’avviso di adunanza. Lo stesso
faceva in occasione di nuovi decreti, ordini e gride, poichè non mancavano
gli analfabeti e non si voleva che s’ignorasse ciò che veniva ordinato.
Il giorno stabilito, una campanella dava l’annuncio
dell’adunanza e gli interessati si raccoglievano o nella piazzetta
centrale del paese o in quella antistante la chiesa secondo i casi.
Facciamo un esempio: il 17 aprile 1611
apparve un decreto del feudatario contenente la proibizione del pascolo
delle pecore, e « delle bestie grosse » nei luoghi feudali e nei prati. I
rappresentanti della comunità, udite le osservazioni della popolazione, le
sottoposero in un memoriale all’attenzione del feudatario, questi ordinò
allora di indire la « vicinanza ». « S’intenda
dalli homini il loro parere et poi si determinerà, ma circa alle bestie
minute si proibisca solamente che non siano mandate a pascolare nelli beni
lavorati ». E la « vicinanza
» fu indetta; non
abbiamo trovato a quali conclusioni giunsero gli interessati (A. M. M.). Per disposizione dello statuto era
obbligatoria una « Vicinanza » annuale
per la presentazione dei conti interessanti la comunità. Essa si doveva
tenere alla presenza del podestà o, in caso di sua assenza, del fiscale.